Semplici cittadini il 2 luglio si trasformano in militi a cavallo, di epoca storica indefinibile, ammirarti ed acclamati dalla folla, accalcata ai bordi del percorso in attesa di veder passare la Madonna della Bruna.
Un po’ di storia
Le processioni di metà giornata e serale sono scortate da cavalieri in costume di epoca indefinita, che ricordano vagamente militi tardo-romani o medievali o rinascimentali. Il piccolo esercito è preceduto dal vessillifero ed è comandato da un generale, coadiuvato da due vice; uno o due trombettieri suonano di frequente una melodia tipica del segnale d’attacco francese, ricordando così l’epoca in cui, agli inizi dell’Ottocento, la Cavalcata era formata da militi napoleonici. Si è soliti ritenere che la tradizione di una scorta di cavalieri sia stata introdotta dal conte Tramontano agli inizi del 1500; essa, invece, fece la sua comparsa nel 1698, quando alcuni soldati a cavallo furono chiamati come difesa per evitare il ripetersi dell’atto vandalico dell’anno precedente, allorché la tela dipinta che addobbava il carro trionfale fu danneggiata.
Non si sa come successivamente fosse formata la scorta del carro; sappiamo invece dallo storico Francesco Paolo Volpe che nel 1787 la difesa era assicurata da una finta “soldatesca” formata da semplici cittadini che vestivano uniformi simili a diversi corpi militari: il corpo dei Fucilieri di Montagna (con l’uniforme gialla e blu) accompagnati da due o tre quadrupedi con some, a raffigurare un convoglio; il corpo degli Albanesi (con divise rosse e mostrine blu) armati di sciabola e fucile; un corpo di cavalleria (con uniforme blu con mostrine rosse) composto da soldati armati di pistole davanti la sella, fucile e cartucciera; il corpo della Brigata (con abito di colore blu e mostrine rosse), i cui componenti portavano il fucile. Tutti i gruppi erano condotti dai rispettivi sottufficiali ed ufficiali, reggevano bandiere e marciavano al ritmo di tamburi, piatti e strumenti a fiato. Il variegato finto esercito era sotto il comando di un generale. Col tempo, però, questo esercito venne soppresso, perché la finta rappresentazione dei vari corpi fu considerata «poco onorevole per la vera».
Con l’occupazione napoleonica, dal 1806 il carro fu difeso per circa dieci anni dai soldati francesi (e di tanto è rimasto il ricordo nella melodia del trombettiere che suona appunto la “carica” di stile francesi). Cacciati i napoleonici, il compito passò a gendarmi italiani, a cui si affiancò la guardia nazionale. In seguito (ma non si sa da quando) la scorta del carro fu formata da semplici cittadini, la cosiddetta Cavalcata, che conservò l’organizzazione di un regolare reggimento; oggi fanno parte di essa i soci di un’associazione, mantenendo comunque lo stile gerarchico di un corpo militaresco, rispecchiato anche dalla posizione di ogni cavaliere nel corteo processionale: precede il vessillifero, seguono, in ordine di anzianità nell’associazione, i cavalieri allineati a destra ed a sinistra del percorso, al centro avanzano distanziati i due trombettieri, due vice generale ed il generale.
Protagonisti per un giorno
I Cavalieri della Bruna oggi come in passato sono attesi ed ammirati come delle star. Fin dalle prime ore del mattino del 2 luglio, mentre si recano al luogo convenuto per formare i drappelli, colpisce vederli all’improvviso cavalcare isolati tra auto e case moderne, abbigliati con abiti di epoca indefinita e con corazza, elmo piumato, lancia/bandiera: davvero sembrano balzati fuori da un libro di storia con l’attivazione di una macchina del tempo.
Sono personaggi attorno a cui in passato erano in subbuglio i vicinati dei Sassi in cui essi abitavano: mamme, sorelle, amiche di famiglia collaboravano nel confezionare abiti e mantelli con tessuti preziosi, poi ricamati con fili dorati; le corazze e gli elmi, invece, erano (e sono tuttora) realizzati da abili artigiani. La vestizione poi era il momento solenne in cui i modesti contadini con le mani callose si trasformavano in cavalieri eleganti e gagliardi. Attualmente il momento preparatorio festoso è ancora visibile nel rito della vestizione del generale, che avviene in pubblico alle 9 del giorno della festa, mentre un nutrito drappello di cavalieri lo attende per scortarlo fino alla piazza principale della città, dove egli assume il comando dell’intero piccolo esercito. Sono finti soldati a cavallo che non indossano un’uniforme uguale regolare, ma ognuno ha la propria, spesso ereditata da padri e nonni, ma che comunque è somigliante a quella degli altri: ampio mantello, ricamato a raffigurare un sole, una croce, le stelle, il profilo dell’immagine della Bruna o altro ancora; pantaloni bianchi, listati con striscia rossa o blu, e scarpe bianche; una corazza di latta copre una camicia anch’essa bianca con collo e polsini spesso di pizzo; una mano regge la lancia, alla cui sommità sventola una piccola bandiera con una croce rossa al centro, mentre l’altra mano tiene le redini; sul capo un elmo di latta lucida dalla cui sommità emerge il cimiero fatto da un ricco pennacchio variopinto.
Particolarmente “barocco” è il cerimoniale preparatorio del corteo. I cavalieri confluiscono verso i punti di raccolta, uno dei quali è alle 8 in fondo a Via Nazionale, nella periferia Nord della città, perché da lì un primo drappello di cavalieri va a prelevare dalle rispettive abitazioni il trombettiere, il vessillifero e un vice generale; si forma un corteo che arriva fino a Piazzetta Pascoli per scortare il generale appena completata la sua vestizione. Alle 8,30 si era però mosso anche un secondo drappello di cavalieri per prelevare dalle loro residenze gli altri due vice generale, con i quali ci si reca in Piazza Vittorio Veneto per poi formare l’intero esercito sotto il comando del generale.
Ma a suscitare l’entusiasmo, sottolineato con grida di gioia ed con applausi dalla folla, è la “carica” frequentemente suonata dei trombettieri, anche se a volte è un po’ stonata; una melodia che permarrà insistente nelle orecchie per i giorni a seguire, fino a spegnersi a mano a mano insieme ad un moto di nostalgia di un giorno che si vorrebbe lungo un anno.
Testi di Franco Moliterni